28 ottobre – Abbiamo deciso di far partire il viaggio Mediterraneo Mare di pace da Genova per ricordare alle persone che i porti che si vorrebbero chiusi ai rifugiati e ai migranti sono aperti, sempre aperti, ai carichi di armi. Ufficiali e illegali.
Nella città Liguria nel maggio scorso i portuali della Filt-Cgil si sono rifiutati di caricare una nave, la Bahri Yanbu, che si sospettava avesse a bordo armi destinate allo Yemen dove, dal 2015, è in corso una guerra civile.
Una guerra dimenticata da tutti che oltre alle migliaia di morti sta provocando la più grande crisi umanitaria dalla Seconda guerra mondiale.
A causa della guerra, infatti, la povertà nello Yemen è balzata dal 47% della popolazione nel 2014 al 75% (previsto) per la fine del 2019. Stanno, letteralmente, morendo di fame.
I numeri del commercio di armi nel mondo
Il carico della Bahri Yanbu era solo una goccia nell’immenso commercio di armi nel mondo che nel quadriennio 2014-2018 è aumentata del 7,8% rispetto al quadriennio precedente e del 23% rispetto al periodo 2004-2008.
Le percentuali dicono poco, proviamo allora a dirlo in valori assoluti: nel 2017 la spesa militare mondiale è stata di 1.739 miliardi di dollari, vale da dire il 2,2% del Pil mondiale (fonte Sipri, Stockholm International Peace Research Institute).
In vetta alla classifica, i cinque principali esportatori: Stati Uniti, Russia, Francia, Germania e Cina. Messi insieme, questi cinque Paesi valgono per il 75% circa del volume totale di esportazioni di armi nell’ultimo quinquennio. Il flusso di armi è aumentato in Medio oriente fra il 2009-13 e fra il 2014-2018.
Bisogna essere ciechi per non vedere la relazione tra guerre e migrazioni
Bisogna essere ciechi per non vedere la correlazione tra migrazioni nel Mediterraneo e guerre, tra la fuga dalla fame e la vendita di armi. Eppure siamo ciechi. Anzi, diciamolo meglio: scegliamo di essere ciechi.
Così come ci siamo arresi all’indifferenza davanti alle morti dei migranti in mare, allo stesso modo ci siamo rassegnati a considerare la produzione e la vendita di armi un aspetto “fisiologico” dell’economia.
Le fabbriche di armi danno lavoro, il trasporto di armi dà lavoro, e persino la guerra, pure quella ormai privatizzata, è un lavoro. Nei paesi occidentali che hanno la fortuna di vivere in pace da oltre settant’anni abbiamo rimosso l’idea stessa della guerra, come se fosse qualcosa che non ci riguarda.
La Siria? È lontana. Lo Yemen? È lontanissimo. Tutto quello che non accade nel “nostro giardino” non ci tocca.
Non possiamo evitare la domanda: che cosa possiamo fare?
Chiudiamo gli occhi e ci limitiamo a scuotere la testa davanti alle notizie del tg perché se scegliessimo di vedere, di provare empatia per le persone che vivono la guerra sulla propria pelle, non potremmo eludere la domanda: che cosa posso fare?
In questa prima giornata in barca con il vento che sta rinforzando e rende difficile fare altro che stare in pozzetto a parlare ( tra una regolazione e l’altra delle vele, ovviamente) discutiamo proprio di questo: della rassegnazione di fronte alla guerra, di come ci si senta impotenti davanti a un ingranaggio da migliaia di miliardi che muove la macchina di morte. Non riusciamo nemmeno a immaginarli 1700 miliardi di dollari!
Nella discussione siamo però tutti d’accordo su una cosa: l’importanza di domandarsi, “che cosa posso fare?”
Le soluzioni possono essere diverse da persona a persona, ma la domanda è uguale per tutti
Le soluzioni possono essere diverse da persona a persona ma la domanda è uguale per tutti perché è quella che segna l’inizio della presa di coscienza, il passaggio dalla passività all’impegno per migliorare il mondo che ci circonda.
Provate a chiedervi: che cosa posso fare? Intanto alle 12 sale un maestrale deciso. Issiamo tutte le vele e inizia la navigazione. Di bolina, impegnativa per chi deve stare sottocoperta a scrivere. Bisognerà aspettare la prima sosta.